Vecchi mestieri a Gallipoli: i ricordi di Elisabetta Casalino

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Nei mesi scorsi, è stato presentato il libro del nostro direttore Giuseppe Albahari intitolato “Mestieri nel Novecento sulle coste del Salento”. Una lettura che ha ispirato ad Elisabetta Casalino un breve saggio intitolato: “Lavori di altri tempi”. “Ho letto con molto interesse il libro – ha scritto – che mi ha trasportata nel mondo delle cose semplici di una volta ed è stato come rivedere le persone che svolgevano quelle attività”. E ciò a Gallipoli, dove Elisabetta, gallipolina, già insegnante di scuola Elementare e attualmente residente a Galatina, ha vissuto negli anni Quaranta e Cinquanta gli incontri ora descritti.

E se Albahari ha raccontato i mestieri astraendosi dalla realtà di Gallipoli, che è ugualmente suo luogo natìo, Elisabetta Casalino, nel testo dal quale si estrapolano di seguito brani testuali e sintesi, fa riferimento anche ai personaggi. Che i lettori più giovani potranno ora scoprire e i più anziani ricordare.

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A cominciare da Cesarino. “La sua drogheria non era molto grande – scrive – ma vi si trovava di tutto… Il droghiere, garbato e gentile con tutti, era sempre dietro al bancone, su cui troneggiavano, uno accanto all’altro, barattoli di vetro di forme particolari, con l’apertura laterale, contenenti coloratissime caramelle di gusti diversi… Nel periodo di Natale, entrare in quel negozio era vivere più intensamente l’atmosfera di festa… Il negozio veniva pervaso da un odore inebriane, che faceva pregustare la squisitezza di scajozzi, taraddhi nnasparati, pustraddhuzzi e cozze. Pesava, quindi, le quantità di spezie richieste dal cliente e le metteva nei coni che costruiva al momento, avvolgendo piccoli fogli di carta oleata. Dal droghiere compravo anche le essenze per fare i liquori, usati nelle ricorrenze particolari, per offrire agli ospiti un “bicchierino”. I liquidi contenuti nelle piccole bottigliette di alchermes, strega, rosolio, anice, anisetta, sapientemente mescolati con sciroppo di zucchero e alcol, diventavano gustose bevande dai colori brillanti, che non mancavano mai nei festeggiamenti di matrimoni, cresime, battesimi ed altre liete circostanze”.

Un altro nome, con un soprannome indicativo dell’attività: Cia stricarrobbe. “Nel giorno del bucato, nella mia casa c’era un gran trambusto”, scrive Elisabetta. E più oltre, continua: “io avevo il compito di avvisare, la sera prima, la lavandaia a domicilio, la Cia stricarrobbe, una donna alta e magra con le braccia sempre arrossate per il continuo strofinare delle robe”. La Cia insaponava le robe, le sfregava energicamente sulla tavoletta scanalata (stricaturu) e le sistenava nel cofano. La padrona di casa completava il ciclo di lavaggio e il giorno dopo raccoglieva la liscivia (lassìa). “Intanto, tornava a casa mia la lavandaia, che estraeva dal cofano le robe, le risciacquava nella pila piena d’acqua, le strizzava e le stendeva sulle corde tese che erano sulla terrazza”.

In via XXIV maggio, di fronte al cinema “Sala Radium”, c’era il salone del barbiere Gaetanino. Quando accompagnava il padre a radere la barba o tagliare i capelli, la piccola Elisabetta si divertiva a fare ruotare la sedia girevole con una giostra, mentre un signore anziano cantava una canzone napoletana accompagnandosi con il mandolino. “Qualche volta, a dare una mano a Gaetanino c’era suo padre, Mesciu Carmelu, il quale però svolgeva il suo lavoro soprattutto a domicilio. Con una cassetta di legno contente gli attrezzi del barbiere, si recava nelle case di persone anziane o comunque impossibilitate a spostarsi, per sbarbarle o tagliare loro i capelli”.

Per un anno, la nostra autrice ha frequentato l’asilo gestito da Mescia Damiana. “Lei ci insegnava soprattutto le principali buone maniere: chiedere permesso, salutare, ringrazia, chiedere scusa. Ci faceva recitare le preghiere e ripetere più volte le principali nozioni di catechismo della Chiesa Cattolica. Imparavamo anche tante filastrocche e cantilene, sia in italiano che in dialetto gallipolino”. Insegnava anche regole che oggi potrebbero sembrare strane, come il “momento del silenzio”, che comportava una punizione anche per chi soltanto rideva. “Alle ore 12, al suono della sirena di mezzogiorno, potevamo finalmente alzarci dallo sgabello e tornare tutti a casa”.

Mesciu Giuvanni era un ciabattino ambulante. Quando giungeva in un luogo, qualcuno gli porgeva una sedia e intorno a lui si accumulavano scarpe malconce. “Il maestro non parlava mai, pensava solo a lavorare senza alzare lo sguardo, nemmeno quando alcuni bambini monelli lo canzonavano, chiamandolo: Mesciu Giuvanni sconza scarpe. Non gli si addiceva quel soprannome, perché conosceva bene quel mestiere… “Quando consegnava le scarpe riparate, non tutte le persone gli davano qualche soldino, ma lui non si lamentava. In compenso, c’era sempre qualche signora che, all’ora di pranzo, gli portava un piatto di minestra calda”.

In via De Pace, c’era il negozio di “modista” gestito da due sorelle (Ortis, n.d.r.). Una realizzava cappelli femminili, semplici e colorati per le bambine, eleganti e più o meno sofisticati per le signore, usando feltro, lana, velluto. L’altra sorella era addetta alla vendita di velette e mantiglie da indossare in chiesa e di tutto ciò che necessitava alle sarte, dai filati ai bottoni. “Restavo incantata – ricorda Elisabetta – quando prendeva grandi scatoloni da cui estraeva passamanerie, merletti, nastrini colorati, decorazioni con lustrini e pailletes, con cui le signore ornavano gli abiti più eleganti”.

Gici chiautaru doveva il suo soprannome al fatto che realizzava bare, chiauti in dialetto, di legno più o meno pregiato e in qualche modo su misura, atteso che prima di mettersi al lavoro nel suo laboratorio, si recava nell’abitazione del defunto e ne prendeva le misure. “Quando i superstiziosi incontravano quel falegname per strada, cambiavano direzione per scaramanzia. Non era il mio caso – sostiene l’autrice, – anzi, qualche volta sono andata a curiosare nella sua falegnameria. Mi piaceva osservarlo quando fabbricava altri oggetti di legno: sgabelli di varie dimensioni, piccoli tavolini, madie, attaccapanni, intelaiature di sedie da impagliare”.

Latte e caffè? In alcune case, l’usanza di tale colazione è iniziata nei primi anni ‘60. In precedenza, Elisabetta ricorda che nelle giornate fredde, quando già di buon mattino la madre aveva cotto i fagioli, l’acqua bollente di cottura versata sul pane raffermo e condito con olio, era un’ottima colazione. Così anche le “pucce cu le ulie, pucce cu le ulie”, come gridava il garzone del fornaio. E poi c’era, molto atteso, Nicola delle ricotte, un ambulante che sopraggiungeva con il suo biroccio tirato da un asinello e lanciava anche lui il suo richiamo per le massaie: “Cautu lu sieru, frisca la ricotta”. “Bere una tazza di siero caldo, quel liquido giallastro contenente pezzetti di ricotta, significava scaldare lo stomaco e il cuore. Inoltre, Nicola ci vendeva le ricottine, che metteva in un grande piatto, svuotando piccoli fiscoli di giunco a forma di tronco di cono… D’estate, Nicola ci portava tanti tipi di fichi: verdi, viola, neri. La varietà che io preferivo era chiamata dal venditore “fica signura”. Era di forma più tondeggiante, con la polpa molto chiara, di un sapore dolce, per niente stucchevole. Ne toglievo la buccia e mangiavo quel fico col pane: una vera squisitezza”.

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Ringraziamo Elisabetta Casalino, che ha per altro citato la frase di Jorge Luis Borges – Noi siamo i nostri ricordi – che il nostro direttore Giuseppe Albahari ha utilizzato come esergo del libro “Mestieri nel Novecento sulle coste del Salento”, edito da Puglia & Mare. A proposito del quale, cogliamo l’occasione di questo articolo per rispondere a chi ci ha chiesto dove può essere acquistato: a Gallipoli, presso la libreria “La Calandra” in via San Lazzaro 9. Inoltre, sulle maggiori piattaforme di vendita di libri online.

Gallipoli, 15 marzo 2025

LA REDAZIONE

Foto di Gustau Eril i Pyniot, da Wikimedia commons

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